Oggi andiamo a parlare con Davide Torelli, nato nel 1984 a Montevarchi, laureato in Media e Giornalismo e grande appassionato di basket, prima come giocatore ma successivamente come scrittore e commentatore, tanto da fondare il Canale YouTube BIG 3 (ex NBA Week) e scrivere per siti sulla Pallacanestro (come the-shot.it). Scrittore interessante ed eclettico, (se vi capita leggete il suo saggio del 2019, “Nikolaj Bujanov, il partigiano che dette la vita per Cavriglia”) è autore di So nineties – il decennio dorato dell’NBA,  libro edito da Ultra Edizioni  del 2020, e impreziosito ulteriormente dalla prefazione di Dario Vismara (giornalista di Sky Sport Nba), dalla postfazione di Roberto Gotta (giornalista per DAZN e Sky Sport, ed ex redattore di American Superbasket) con illustrazione digitale di copertina ad opera di Alessandro Cardona.

  1. Prima di tutto parlaci un po’ di te e della tua esperienza sportiva. Hai sempre praticato la pallacanestro? Dove?

Ho iniziato con la pallacanestro all’età di sei anni, controvoglia e spinto dai miei genitori, nel Centro Sportivo Alberto Galli di San Giovanni Valdarno. Ho proseguito fino ai venti, per tornare nelle minors una decina di anni dopo. Poi, una serie di infortuni fastidiosi mi hanno convinto ad abdicare. Più o meno con l’inizio della mia avventura nel minibasket entrai in contatto con il mondo NBA – per quanto fosse possibile con la copertura televisiva del tempo – ossessionandomi.

  1. Nel tuo libro si parla di NBA e ci si cala “prepotentemente” negli anni Novanta. Un periodo in cui la pallacanestro, in Italia, smette di essere fenomeno di pochi, per assurgere a cultura di massa, non solo nello sport ma anche nella cinematografia (Space Jam), nella “moda” (l’abbigliamento e le scarpe da basket che divengono per tutti i giorni) e in altri settori. Tu come li hai vissuti?

Li ho vissuti con gli occhi di un bambino innamorato di personaggi come Magic e Jordan, a bocca aperta fin dal Dream Team del 1992. Poi  sono cresciuto con l’aumentare della passione, registrando le partite televisive, comprando ogni numero di American Superbasket, sognando di poter viaggiare per vedere dal vivo quello che Ugo Francicanava definiva (fa decisamente ridere) “il pianeta dell’iperbasket”. Per quanto fosse possibile non mi facevo mancare canotte, scarpe, cappellini e magliette reperibili in provincia durante il decennio degli anni ’90. Conoscevo i roster delle squadre a memoria, ero una sorta di mini enciclopedia vivente che si vestiva con le Converse di Kevin Johnson, i pantaloncini dei Bulls, la t-shirt dei Suns ed il cappellino dei Sonics. Una volta, un ragazzo del mio quartiere mi disse (per prendermi in giro): “te non sei un tifoso di una squadra, sei proprio l’NBA!”. Effettivamente ero esagerato, non parlavo d’altro. Dovessi calcolare i soldi spesi in cards, riviste e merchandising oggi avrei potuto comprarmi una villa da re. O meglio, avrebbero potuto farlo i miei genitori, ché i soldi erano loro.

  1. Come è nata l’idea di questo libro? E come è strutturato?

Iniziai con il podcast di Nba Week per Radio Big World, una web radio. Poi trasformandolo in un canale Youtube insieme a due amici, che oggi si chiama Big3. Da sempre appassionato di scrittura mi proposi con successo a The Shot, iniziando a collaborare. Da lì – nelle ricerche per i pezzi da scrivere – l’idea di lavorare ad un libro che ripercorresse tutti i cosiddetti nineties.
La struttura è cronologica in parte, cioè viene narrata ogni singola stagione del decennio, raccontandone eventi centrali, protagonisti e descrivendo le partite chiave. A questi capitoli sono alternati altri di approfondimento, dove mi focalizzo su personalità storiche (David Stern, Dennis Rodman, Charles Barkley) o tematiche particolari (il dominio dei centri, l’avvento degli europei nella lega, il fenomeno iniziali del salto dalla high school ai professionisti).

  1. Michael Jordan è un mito delle masse anche grazie a uno splendido documentario di Netflix, ma nel tuo libro non parli solo di lui. Parlaci un po’ della tua opera.

In realtà avrei voluto parlare il meno possibile di lui e dei Bulls, ma in fase di stesura mi sono reso conto che era impossibile, trattandosi dei dominatori del decennio. Quando è uscito The Last Dance, ero già in fase di correzione avanzata: l’idea era nata molto prima che venissi a conoscenza dell’ottima produzione reperibile su Netflix, e che ovviamente mi sono divorato con entusiasmo.
L’obiettivo dell’opera era riassumere un periodo centrale per lo sviluppo globale della lega, facendo luce su angoli meno ricordati dalla grande narrazione che la NBA promuove, ridondante e sempre attenta al passato. Pensavo potesse essere utile approfondimento per le nuove generazioni, e piacevole ricordo per chi quell’epoca l’aveva vissuta. Ho cercato di inserire spunti che favorissero riflessioni negli appassionati odierni, rileggendo il tutto partendo dalla popolarità raggiunta oggi, guardandosi indietro con spirito critico. A prescindere da quel che si dice, non era tutto oro ciò che luccicava in quel periodo. Anche perché non può esistere un decennio oggettivamente “migliore” rispetto ad uno a seguire: se osserviamo il percorso nella sua totalità, l’evoluzione è naturale. E questo vale per ogni ambito artistico, sportivo o sociale che possiamo valutare. Poi, soggettivamente, le evoluzioni possono piacere di meno rispetto al passato, ma spesso entra in gioco una componente nostalgica che tiene indirettamente conto del contorno in cui un ciclo veniva percepito.

  1. Gli “eroi” in copertina, ad opera di Alessandro Cardona, sono vari: dal già citato Jordan a Kobe Bryant, ma anche David Stern, Reggie Miller e Dennis Rodman. Come è caduta la scelta su di loro?

Beh, dalla volontà di riassumere il senso del libro. Ne abbiamo parlato con Alessandro – prima che iniziasse ad illustrare – e ci siamo rapidamente trovati c’accordo. David Stern, il commissioner della NBA in quel periodo, è l’architetto del tutto. Jordan, il dominatore. Reggie Miller rappresenta “uno dei tanti” che non hanno vinto, pur restando iconico agli occhi dell’oggi. Dennis Rodman, invece, è palesemente la scheggia impazzita che per anticonformismo percorre l’epoca con contraddizioni interessanti, anche a livello di gioco. Infine Kobe, che entra nella lega nel 1996 saltando il College, è il collegamento tra i nineties ed il futuro. Uno dei tanti che si affacciano in età giovanissima al professionismo, dominando il nuovo millennio.

  1. L’NBA dei novanta diventa quasi un mito nel tuo racconto… quali sono le cose che ti è piaciuto maggiormente raccontare? 

Difficile definirne qualcuna. Direi tutto. È stato un viaggio a ritroso in un periodo in cui passavo da un’infanzia felice ad un’adolescenza non troppo turbolenta. Un momento fantastico della mia vita da ricordare. Attraverso la stesura del testo ho avuto modo di riviverlo, attraverso vecchie partite ed i numeri di American Superbasket conservati: sono tornate alla mente tante cose sepolte del mio passato. È stato piacevole.

  1. Si passa da una tematica importantissima per gli anni ’90 come l’HIV di Magic Johnson all’ingresso di atleti provenienti da altri Paesi extra America. Come ti sei documentato?

Per quanto fossi piccolo all’epoca, il ritiro forzato di Magic per aver contratto l’HIV mi colpì molto. Anche perché coincise quasi in contemporanea con il decesso di Freddy Mercury, altra icona del tempo. Quindi gran parte dell’approfondimento fatto al tempo ha rappresentato la base per ricerche future, e lo stesso vale per questioni più circoscritte al gioco, come l’avvento degli extra statunitensi. La principale fonte alla quale mi sono abbeverato – come introducevo prima – sono stati i numeri di American Superbasket che ho conservato in tutti questi anni, e che ho “salvato” dal garage dei miei genitori dove giacevano impolverati. Trattandosi della collezione completa relativa al periodo in esame, ho potuto rivivere certe tematiche anche attraverso quegli aggiornamenti narrativi avvenuti di anno in anno. Per giungere dove non arrivava la mia memoria.

  1. Quali sono i tuoi progetti futuri? Parlerai ancora di Sport? O cercherai di spaziare fra i generi?

Dopo So Nineties mi ero ripromesso di non scrivere più di pallacanestro, almeno a livello di libri. Per quanto parlare di NBA sia circoscritto ad una nicchia, sono tantissime le pubblicazioni esistenti che vengono sfornate. Si tratta di una cosa positiva, ma il rischio di doppioni è inevitabile.
Avevo recuperato una ricerca incredibile operata da mio padre in relazione ai Mondiali di Messico ’70. Un archivio di articoli e numeri di riviste conservate al tempo, organizzate cronologicamente in modo impeccabile analizzando la storia dell’ultima Coppa Rimet fin dalle qualificazioni delle nazionali protagoniste. La mia intenzione era lavorare su questo. Si tratta di un Mondiale unico per una serie di ragioni, anche circostanti lo sport.
Poi però, mettendomi a ricercare materiale per un articolo (mai uscito) su Slick Watts, sono emerse nuove suggestioni, ed ho avviato quasi involontariamente un lavoro di stesura sempre riguardante la NBA, che rapidamente ha preso a formarsi.  Sono giunto quasi al termine del processo di scrittura e credo proprio che lo proporrò a qualche editore, una volta ricorretto, e poi vedremo.
Ho “in panchina” anche un romanzo dal titolo “otto”, che devo solo trovar la voglia di sistemare, e volendo una serie di racconti scritti negli anni che mi piacerebbe pubblicare. Chissà se questi progetti vedranno mai la luce.

  1.  La tua attività di giornalista non si ferma: continuerai a parlare di pallacanestro o andrai ad affrontare anche altri sport?

Si tratta di una passione che voglio far coincidere con i miei impegni lavorativi reali, quindi è difficile dire se e quanto continuerà la mia “attività di giornalista”. Sicuramente, fino a quando avrò la possibilità di unire passioni come la scrittura e la pallacanestro, non ci sono ragioni per smettere, trattandosi di un divertimento che diviene evasione. Soprattutto in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo a causa della pandemia. Per adesso scrivo anche di altro in un mensile locale che si chiama Valdarno Oggi, amo buttar giù pensieri che incrociano altre passioni nel mio blog Un.Dici, e continuo a collaborare con The Shot. Ho tante storie sportive che vorrei raccontare secondo la mia ottica, molte delle quali calcistiche, e se avrò l’occasione non vedrò l’ora di pubblicarle. Vediamo che succede: “è un mondo difficile, vita intensa, felicità a momenti e futuro incerto” diceva un poeta.

  1. Quali sono i tuoi “personaggi” sportivi preferiti? In campo e fuori. E perché?

Cestisticamente impazzivo per lo stile di Shawn Kemp dei Supersonics, narrato con un capitolo dedicato anche in So Nineties. Nella NBA di oggi, mi inchino alla longevità e alla potenza di LeBron James, oggi ai Los Angeles Lakers che son la squadra che tifo, tra l’altro. Rispetto al resto, impossibile non citare Diego Armando Maradona, soprattutto per tutto quello che è stato anche per le contraddizioni che hanno caratterizzato la sua vita. Mi piacciono differenti tipologie di sportivi: da una parte sono attratto da chi utilizza il suo status anche per rivendicazioni sociali o politiche, ma contemporaneamente adoro i lati oscuri, le vite al limite, gli sconfitti dai propri errori. Se poi riescono a risorgere come una fenice qualsiasi, ancora meglio.

  1. Perché un giovane d’oggi dovrebbe scegliere la pallacanestro come sport, secondo te?

Anzitutto – e penso principalmente ai bambini – dovrebbero scegliere lo sport, e tutto ciò che di buono porta alla loro formazione, a livello sia fisico che sociale. Ed in Italia non è semplice, viste le disorganizzazioni e le contraddizioni che purtroppo caratterizzano gran parte degli ambiti che tocchiamo quotidianamente. La pallacanestro resta un gioco emozionante, semplice da praticare ovunque, determinato da una commistione di gesti tecnici e atletici unici, e agonisticamente reso stimolante da contatti frequenti. Serve forza, atletismo, grazia, tecnica, concentrazione. Considerato questo, è semplice appassionarsi guardando i professionisti, e di conseguenza la voglia di emularli vien da sé. Io non arrivo neanche a 170 centimetri di altezza, eppure ho giocato una vita, quindi i limiti di altezza non esistono in termini pratici.

  1. Un’ultima domanda. Che cosa ti affascina tanto del basket in un paese così calcio-centrico?

Credo che i miei genitori “scelsero per me” il basket perché era uno sport indoor, perché lo seguivano da spettatori a livello locale e perché credessero che avessi bisogno di socializzare. Da lì mi sono appassionato a tutto il resto.
In realtà il primo momento in cui mi sono scontrato con la bellezza della sport – e con quella forza aggregante che porta con sé – furono i Mondiali di Calcio di Italia’90.
Ho sempre amato seguire anche lo sport nazionale per eccellenza, non ho mai pensato di praticarlo agonisticamente perché son sempre stato cosciente dei miei limiti, anche quando avevo sei anni. Ed è innegabile che son da sempre detentore di due proverbiali “piedi a banana”.
Rispetto alla pallacanestro e alla NBA, la quantità di storie e collegamenti con la cultura POP e la storia statunitense, hanno contribuito ad accrescere la mia curiosità, e quindi la mia passione.
Di contro, questo vale anche per il calcio, che ritengo il linguaggio universale più efficace per rompere il ghiaccio con chiunque, almeno tra uomini.
In effetti ho parlato di calcio ovunque e con chiunque, anche in situazioni in cui non riuscivo a condividere l’idioma principale con il mio interlocutore. Ricordo di una lunga discussione notturna in un bar di Barcellona con un ragazzo senegalese, che aveva vissuto per un periodo a Bergamo, con il quale provavamo a spiegarci mescolando italiano, inglese, spagnolo e francese. O meglio, il francese lo parlava lui, io riesco a capirlo ma non a costruire frasi di senso compiuto. L’input di partenza fu ovviamente il “futbol”.
Ma mi son trovato a discutere sul passaggio di Cristiano Ronaldo alla Juventus, per dire, con un barista Argentino trasferitosi a Cuba, durante una mia vacanza all’Havana.
Si tratta di una splendida porta d’accesso per uno scambio. Sedersi ad un bar e parlare con uno sconosciuto, in giro per il mondo, era uno dei miei passatempi preferiti quando potevo, e quando si poteva: il modo migliore per viaggiare ovunque, vivere epoche distinte ed apprendere, attraverso le storie altrui, rispondendo con le proprie.



intervista di Niccolò Ferrarese